Il liceo è un corso di studi meraviglioso. Per chi sa
viverlo è, magari, anche qualcosa in più, scuola di vita, d’esperienza, di
legittima ostinazione per partito preso. E il suo obiettivo finale è il suo
stesso annullamento: formare persone che sappiano abbandonare ghiribizzi
adolescenziali e responsabilizzarsi alla ricerca di un arcobaleno di
concretezze. Non è mai semplice guardare avanti, troppo avanti.
E così me ne sono andato al momento giusto dal liceo,
nel momento di suo apogeo, conclusosi nell’ultimo biennio. Ragazzi equilibrati
e motivati, voglia di costruire qualcosa, assemblee d’istituto quasi serie, un
ottimismo che fa un baffo a Fix You.
Ma forse non è questo il cuore pulsante del liceo, occultato da una facile histoire evenementielle. C’è altro, e
voi lo conoscete meglio di me.
Me ne sono andato al momento giusto ogni volta perché
c’era sempre qualcosa che distruggeva tutto ciò di positivo in cui si viveva e
cresceva. Dieci anni fa era la pigrizia, cinque anni fa il pasto caldo alla
mensa, oggi sono i tagli governativi all’istruzione. È facile piangersi addosso
ancora prima di iniziare la vita vera. L’Italia non offre nulla, l’università
non è un ufficio di collocamento – ormai neanche quelle private lo sono più – e
c’è un’intera classe di studentato che non saprà che fare senza neanche averci
provato. Non ci sono risposte giuste in questi casi. C’è poi chi ci crede,
lontano da posizioni politiche, doppiamente bollato, anarchico e ottimista,
miserabili sciagure di qualcuno impiastrato di resina che non è riuscito ad
abbandonare l’albero.
Qual è il problema allora? Volevamo il futuro, volevamo
diventare grandi. Abbiamo avuto davanti a noi una porta che si apriva infinita
verso qualcosa inimmaginabile persino per Buzz Lightyear. E siamo diventati
grandi, siamo pieni di responsabilità, la più grande delle quali è stata la
nostra fuga. Una fuga caricatissima, perché pensavamo che sarebbe stato tutto
più facile, che saremmo riusciti a trovare l’arcobaleno più cristallino, che
avremmo sciolto l’ingarbugliato nodo di un presente cinico. Non c’era più
niente alle nostre spalle, tutte facce conosciute, tutte persone già vissute,
stesse ragazze, stessi corridoi – l’unica cosa cambiata è il distributore, e
che distributore! – e stessi problemi. Avremmo cambiato il mondo con il nostro
sorriso sbarazzino. Eppure, ogni macrocosmo è composto da microcosmi. Non
cambia niente. Non che sia un male, ma forse non ce ne siamo mai realmente
andati.
Ho sempre pensato di essermene andato al momento giusto
perché pensavo che la maturazione, la vita, la consapevolezza, fossero parte un
processo cronologico. Non lo sono. Fanno parte di qualcosa che prescinde dal
tempo e da tutto quello che, spiriti inquieti, stiamo cercando. Siamo nati e
vissuti in un determinato modo in un determinato mondo, non possiamo fuggirne
né farci nulla. Non c’è niente di meglio di quello che siamo.
Ho sempre pensato di essermene andato al momento giusto.
Forse non è così. Una volta sono tornato e ho incontrato una ragazzina e me l’ha dato lei un arcobaleno.
Un
ex direttore
Vittorio Mollo
Vittorio Mollo
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